QUESTI AMATI ORRORI

QUESTI AMATI ORRORI (trascinato)

di Renato Gabrielli e Massimiliano Speziani
testo di Renato Gabrielli
in scena Massimiliano Speziani
spazio scenico e luci Luigi Mattiazzi
suono Luca Pagliano

Una figura senza nome giunge da un aldilà minaccioso e seducente, lontano e vicino al tempo stesso, per incontrare il pubblico; ed è proprio sul filo sottile di questa relazione – tra timidezze, reticenze, vuoti mentali e improvvisi slanci – che cerca di fare scoccare la scintilla di un’intesa, di un reciproco riconoscimento. Evoca di fronte agli spettatori frammenti di vita, ricordati o immaginati, che potrebbero appartenere a chiunque. Per farlo, sovente si sdoppia, generando creature bifronti, tenute assieme dal desiderio e che svaniscono in un soffio d’abbandono: una madre e il suo bambino; un cane e il suo padrone; una coppia di amanti; un dottore e il suo paziente; un attore e chi lo osserva… Un desiderio bruciante di comunione con il pubblico, di abbattere le barriere della rappresentazione, è ciò che muove il nostro “lui” in quest’ora di viaggio – comico a tratti, a tratti elegiaco – tra gli “amati orrori” della memoria e del sogno. Di tale desiderio, Renato Gabrielli e Massimiliano Speziani hanno voluto esplorare non l’inevitabile scacco concettuale, ma le infinite, contraddittorie sfumature emotive, in un esperimento teatrale che si evolve di serata in serata.
Questi amati orrori, oggetto teatrale di difficile identificazione, brilla per rigore, coraggio, inventiva. Lo firmano Renato Gabrielli, drammaturgo che cesella le parole come un orafo, e Massimiliano Speziani, attore capace di impressionanti trasfigurazioni. … Quel che accade in scena è la danza del pensiero in azione. Ognuno si porta a casa quel che vuole o quel che riesce, ma la sensazione, per una volta, è quella di un’esperienza teatrale vera. Immaginaria e molto, ma molto concreta.”
Sara Chiappori, Hystrio

“L’attore, il bravo e duttile Massimiliano Speziani, in un quadrato palcoscenico-ring della vita, delimitato da panche di legno, dice ciò che fa e fa ciò che dice… Tutto e tutti è lui, l’attore sempre in cerca dell’altro per essere se stesso in uno spettacolo che ricorda un esercizio alla Queneau e strizza l’occhio a Beckett, a quel non fare nulla di più che essere ancora vivo.”
Magda Poli, Il Corriere della Sera


Questi amati orrori ha segnato un netto cambio di direzione rispetto ai miei lavori precedenti. Avevo spesso scritto avendo in mente precisi interpreti e discutendo con loro la linea da dare al testo già durante la stesura; qui però, per la prima volta, ho costruito una partitura verbale senza fondarla su una struttura drammaturgica di tipo narrativo, ma traendo spunto da quanto proposto da un attore (Massimiliano Speziani) in lunghe sessioni d’improvvisazione. Questo scarto metodologico mi ha indotto a esplorare territori per me nuovi sul piano della lingua e dello stile, abbandonando l’esibita e ironica letterarietà che era tipica, per esempio, di Tre – Una storia d’amore, per cercare di dare forma a una scrittura più lieve, sospesa e reticente. Il “lui” che cerca una relazione con gli spettatori in Questi amati orrori evoca storie incomplete, semi-cancellate dall’oblio, marcate da un senso di perdita o di abbandono: ecco, non è la riflessione sul teatro, ma un certo sapore di elegia, scoperto dopo anni d’immersione nel fantastico e nel grottesco, ciò che più mi è caro in questo “anti-monologo” divagante e delicato.
Renato Gabrielli


All’inizio di un lavoro, una domanda.
Cosa unisce un attore a uno o più spettatori in teatro, durante una rappresentazione?
Al di là delle convenzioni e delle abitudini, cosa li legittima e li spinge uno ad agire e l’altro ad assistere?
In teatro, consapevolmente o meno, avviene un “incontro”, si instaura una “relazione” tra attore e spettatore da cui scaturisce un sentimento. Un sentimento condiviso e vissuto. Il sentimento dello spettacolo. Sentimento che ha sì a che vedere con la storia che si rappresentata, ma è forse il tramite di qualcosa di più essenziale.
Un maestro, o forse più maestri, del secolo scorso dicevano che il teatro non è il “cosa”, ma il “come”. Diciamo allora che questo sentimento riguarda il “come”.
Dopo l’ “incontro”, dopo la rappresentazione ognuno porta con sé il gusto di tale sentimento, gusto che ha a che fare con qualcosa che riguarda l’aver vissuto un’esperienza.
Questi amati orrori è iniziato con questa domanda e con il desiderio che l’accompagna.
Da settembre 2009 a giugno 2010 abbiamo avuto a disposizione tre periodi di dieci giorni ciascuno, più la fase dell’allestimento.
Abbiamo abbozzato e poi definito durante le prove due spazi. Il primo, uno spazio che potesse raccontare l’essere “in vista”, l’essere osservato, l’essere al centro dell’attenzione e non solo della rappresentazione; uno spazio quadrato, quindi, delimitato da panche, al cui interno l’attore accede attraverso un ingresso formato dalla discontinuità delle panche stesse. È questo il luogo della relazione e dell’apparizione, dell’esibizione. Il secondo, uno spazio esterno, di preparazione per l’attore, visibile e non visibile, una zona ampia, che nello spettacolo è diventato tutto lo spazio del TeatroLaCucina.
Nel primo periodo di residenza si è iniziato ad improvvisare.
Non ne è nata una storia o più storie ma frammenti di esse fatte di apparizioni, iterazioni sonore oltre che gestuali, fotogrammi in movimento di figure.
Tali frammenti incarnavano delle “relazioni”: Cane-Padrone, Madre-Figlio, Uomo-Donna, Paziente-Dottore e Attore-Spettatore.
Ne sono nate delle figure bifronti per ognuna di tali coppie.
È seguita una fase di scrittura sul materiale creato dall’attore, da parte di Renato Gabrielli,. I frammenti oggettivati sulla carta si sono successivamente arricchiti e precisati in una nuova fase di elaborazione scenica e di improvvisazione strutturata da parte mia. Nello spazio delimitato dalle panche, abbiamo iniziato ad immaginare che il pubblico seguisse “lui”, l’attore, nel suo agire, e che l’attore iniziasse a creare una relazione con esso, soprattutto nei passaggi tra un frammento e l’altro. Non ci siamo orientati a definire quello che poteva essere un rapporto diretto, fatto di domande o coinvolgimenti dello spettatore in prima persona, ma abbiamo indagato e ricercato quella qualità del sospeso e del non detto che scaturisce dalla vicinanza e dall’intimità e da una predisposizione del nostro “lui”, ad essere lì, ad essere osservato, a sentire di essere guardato. Predisposizione che si può sintetizzare con la frase: “Sono qui per voi”.
Frase che non è mai diventata una battuta del testo, ma è rimasta impulso e guida dell’attore per dare vita ad uno spazio interiore per lo spettatore, dove lasciare liberamente riverberare le impressioni e le sensazioni legate ai frammenti evocati.
Massimiliano Speziani