IO SONO QUI

scritto da Franco Rossi
diretto da Franco Rossi e Marion D’Amburgo
interpretato da Marion D’Amburgo, Alessandro Conti e Flavia Bucci
musiche Giulio Saverio Rossi, Franco Rossi e Demdike Stare 

Io sono qui è una performance del 2017, costruita dai semi cattivi sulla voce di Marion D’Amburgo. Una sorta di cronaca radiofonica degli ultimi sette giorni di una Penelope esausta.

Volevamo indagare l’incontro tra una delle voci più notevoli del teatro contemporaneo e un elettronica tribale, ritmica e scarsamente melodica. La storia racconta di una creatura stanca, che non disfa più la tela, una creatura che si è arresa al passare del tempo, travolta dal suo stesso aspettare. Nella storia la figura di Ulisse non si palesa mai pur essendo presente. È un Ulisse già arrivato a destinazione, ma terrorizzato dall’idea di varcare la soglia di casa e di consegnarsi al presente, un uomo imprigionato da parole pesanti come patria, onore, orgoglio.

È una donna in ansia, la Penelope di Io sono qui, una donna che ha perduto la capacità di imbrigliare il tempo nella tela. IO SONO QUI è affermazione e domanda ed è un grido che ci rende luoghi prima ancora che individui, è dichiarazione di fragilità che scaturisce dall’attesa in un tempo incrinato dall’inazione e racconta di Ulisse e Penelope, gli sposi che mai s’incontrano se non al termine del viaggio.

Pensata come performance da ascoltare in cuffia in forma di party, Io sono qui ha assunto nel tempo altri spazi d’immaginazione che oggi la rendono fruibile anche in ambienti più ampi in cui Penelope, in equilibrio sull’orlo dell’oblio, danza tra il pubblico come ultimo rimedio alla condizione dell’eterna moglie che aspetta, mentre Ulisse, imprigionato dalle sue geometrie mentali, medita nuove partenze e nuove devastazioni.  In scena: due sedie, un altalena, quattro monitor, nastro carta e fibra colorata. Due video proiettori.

Note di regia
Io sono qui, attraverso l’analisi di un aspetto del tempo, il tempo scandito dall’attesa, (almeno per quanto riguarda il racconto di Penelope) parla anche di coabitazione di spazi, di edifici e di periferia. Parla del vivere la città e la sua forma moderna. Forma che se da una parte dovrebbe assicurarci conforto e vivibilità dall’altra parte tende a disorientarci sempre più con un rischio di disumanizzazione di chi quelle città le abita. C’è un evidente contrapposizione tra lo scolorire sempre di più della città moderna e la città antica, ricca di vicoli e piazze, che per lungo tempo è stata il luogo dell’incontro e del colore e il cui carattere policromo faceva da contrasto col carattere monocromo del paesaggio rurale. Per cui se il colore è vita, emozione, bellezza e, come diceva Matisse, ‟forza”, la sua sparizione è ‟la morte incolore” di cui parlava Pasolini. E se il colore è il linguaggio degli affetti, la sua assenza nella città moderna è indubbio segno di un impoverimento emozionale del tessuto urbano, a vantaggio di una razionalità che si esprime in geometrie verticali che segnalano la prevalenza dei valori intellettivi rispetto a quelli affettivi. Le nostre città sono grigie per i materiali con cui sono costruite (asfalto, metalli, cemento), ma soprattutto per quel grigio percettivo e mentale che tutto sbiadisce, mentre la natura nelle nostre città è diventata una enclave di macchie verdi, indifferente nostalgia di un rapporto organico con l’ambiente naturale che l’uomo della città oggi non ha più. E più ci si sposta verso il centro della città e più la situazione si fa pesante, con l’aggravante (tipica delle città d’arte italiane) della marea di turisti che riempiendo ogni interstizio del centro ne appiattiscono le caratteristiche artistiche e architettoniche, aumentando il senso di claustrofobia dovuto a quella tipicità di borgo medievale o rinascimentale delle nostre città.

Sta però accadendo qualcosa. Nei quartieri popolari dei centri storici e in quelli dell’edilizia popolare periferica, grigia per antonomasia, si assiste al ritorno del colore, colori nelle facciate delle costruzioni, siano esse case o capannoni, negli oggetti che animano le nostre abitazioni, dove si ricorre al colore per esprimere valori di intimità ritrovata, amicizia, ma anche forza. Come se gli abitanti di quei luoghi stessero reagendo, dopo aver vissuto così a lungo un’omologazione generalizzata, l’ingrigimento degli edifici, gli indizi di una depressione e di una sfiducia che toglie slancio ad ogni speranza di cambiamento, forse l’apporto di giovani famiglie provenienti da tutto il mondo ha riportato il bisogno di colore per esprimere comunità e ospitalità. In ogni caso si tratta di segnali da studiare per tracciare nuove idee di città future. Per questo motivo il racconto dell’attesa della nostra Penelope termina ai margini della città, laddove l’uomo ha scavato profonde buche per nuove fondamenta creando un mare di terra rimossa, e dove la città teorizzata è ancora in gara con la natura.


Date:
venerdì
28
giu 2019
ore
21.45